mercoledì 22 agosto 2012

Dodecaneso in compagnia

Lasciamo Sirna con rotta su Nissiros più favorevole di quella su Astipalea. Caro il mio meltemi, un po’ ti abbiamo fregato. Non fai a tempo ad accorgertene per ruotare lievemente e darci fastidio davvero, che arriviamo nella sempre spettacolare Gyali. Ti vendicherai, lo so, ma intanto 1 a 0 e palla al centro. Di questa virgola di pietra pomice adagiata tra Nissiros e Kos ne ho già parlato l’anno scorso. Quindi, consapevole che i miei fedeli lettori hanno ormai imparato a memoria ogni post di questo blog, evito di tediarvi nella reiterazione dello stupore per lo scenario cinematografico che Gyali inconsapevolmente propone. 
Ce la prendiamo comoda, abbiamo 4 giorni davanti perché i nostri amici Stefano ed Elisa arrivino a Kos e di anticiparli a Leros, facendoci raggiungere lì, con questo bastardo incazzato (il meltemi, ca va sans dire) non ci va molto. Agogniamo anche l’allaccio idrico di Kos Marina di cui P’acá y p’allá ha decisamente bisogno per darsi una decorosa ripulita prima di diventare barca ospitante. Nel frattempo ci dedichiamo ad una febbrile e organizzata raccolta di “occhi di Santa Lucia” – come ci svela Stefano – per me erano semplice conchigliette forgiate dal mare. Inutile cercarne per un po’ a Gyali, ne abbiamo provocato l’estinzione. Ma il mare, si sa, restituisce sempre le parti geologiche dilapidate.
Ne approfittiamo anche per passare una serata a Nissiros, ormeggiati abbastanza bene nel disordinato porto di Mandraki. È un giorno buono, niente traghetto della Blu Star a fare risacca.
Conosciamo Artin, fotografo austro-armeno che con l’avvento della digitale e la rovina della professione, decise 10 anni fa di ritirarsi a Nissiros. Lì ha aperto un piccolo negozietto con mostra fotografica e tenta, senza insistere, di fare un po’ di commercio. 15 euro per un CD di 350 foto sull’isola. Ce lo dice con il ben noto sottofondo di “che devo fare, devo pure campare”. Faccio da interprete tra lui e Giovanni e condividiamo un po’ di nostalgici ricordi di quando la fotografia non era roba per tutti ed erano i fotografi a fare le foto, non le macchine fotografiche. Bei tempi. Brutta roba certo progresso. Pazienza, c’è sempre il mare. E per Artin, c’è sempre Nissiros.
Il 15 agosto, come da miglior tradizione dell’Italia produttiva del nord, arrivano a Kos con volo charter da Bergamo, Stefano ed Elisa per la loro unica settimana di vacanza insieme. Una coppia di recente formazione, agli esordi della convivenza vacanziera, lei abbastanza a digiuno di barca. Bella responsabilità che ti prendi P’acá y p’allá, complimenti. Roba da far naufragare pure il primo viaggio di Giulietta e Romeo, Quel che è certo è che il bastardo (sempre il meltemi) non facilita questa esperienza: il giorno prima della partenza da Kos, proprio a mo’ di dispetto, si placa e fischietta a 7-10 nodi tutto il giorno.
Se ti fermi a guardarlo (non chiedetemi come si guarda il vento, se no vuol dire che ho scritto a vuoto tutti questi mesi…), si gira con aria indifferente e un po’ strafottente ti risponde “Che c’è? Problemi?”. Capite perché è bastardo? Il giorno dopo ci costringe a una bella bolina stretta sotto 30 nodi che rende la vicina Palionisos a Kalimnos un po’ più distante del solito. L’equipaggio regge bene, chi si diverte di più, chi di meno, quello che si sbellica dalle risate è sicuramente il Meltemi. Questo pezzo di strada, il Dodecaneso, è a noi ormai ben noto. 
E’ l’unico tratto del nostro viaggio che compiamo a risalire il vento, fortunati gli amici, direte voi. Be’ sì, tutt’altra cosa rispetto alle rilassanti andature con venti portanti fatte finora ma l’arcipelago regala inquadrature uniche e grazie alla nostra esperienza del luogo, poche sorprese. Stefano è lo stesso di quando aveva 15 anni, solo parecchio più salutista (sarà per questo che è rimasto lo stesso?): entusiasta, gentile, compagno di viaggio, insomma. E detto da noi non è roba da poco. Elisa è adorabile, si adatta alla barca benissimo e merita il premio “minor consumo d’acqua per piatto lavato mai registrato”. 
Ahimé, ha un unico enorme difetto che di solito rende a me intollerabile qualunque essere umano: 15 anni meno di me, 14 anni e mezzo per la precisione, e quando mi conviene, della precisione, io ne faccio un vanto. Ma stabiliamo subito che facciamo finta che non sia così, che lei non è coetanea di Jonas che avrà vent’anni nel 2000, Elisa finge di ricordare la nascita del Moplén e le pubblicità della Lagostina e il problema è brillantemente superato. 
Passiamo una bella settimana, noi 4 e il bastardo, quest’ultimo non smette un attimo di parlare ma alla fine non placa i nostri entusiasmi ed è bello vedere negli occhi dei nostri amici la bellezza che abbiamo sempre visto noi in questo angolo di mondo. Alla fine riusciamo a inanellare, nell’esiguo spazio di una settimana, le belle rade di Palionisos a Kalimnos, Archangelos a Leros, Koklakoura a Lipsi, Tiganakia a Arki e una serata in porto a Patmos dove li imbarchiamo sul Flyng Dolphin di ritorno a Kos. Ci mettiamo dentro pure l’emozione di un lasciare gli ormeggi di corsa per rinforzo di vento a Lipsi e un piccolo strappo alla balumina della randa con conseguente riparazione. 
La cucina a bordo riserva le ricette migliori, avvalorate da un risotto ai 4 formaggi di Stefano e da una bella orata pescata da Giovanni per l’occasione. E finalmente a bordo si beve, senza che la sottoscritta debba sentirsi un'alcolizzata solitaria. La settimana è volata, Stefano torna al lavoro, Elisa prosegue il suo scampolo di vacanze in Sardegna. Il Meltemi accusa un discreto mal di testa per l’enorme sforzo sostenuto nel tenerci compagnia e, appena i nostri amici partono, mi dice “Mo’ se non ti dispiace, mi prendo qualche giorno di riposo”.

sabato 11 agosto 2012

Sirna. "Forse cercavi Siena?"

“Uno small interfering RNA, comunemente conosciuto come siRNA, è una molecola di RNA lunga tra i 20 ed i 25 nucleotidi in grado di svolgere numerosi ruoli biologici...”. Ecco, se digiti Sirna su Google, ti ritrovi immerso in teorie scientifiche sul comportamento delle molecole che non era proprio nelle tue intenzioni approfondire. Dell’isola dell’Egeo, non vi è traccia. Neanche Wikipedia è in grado di raccontarti qualcosa di Sirna (o Syrna), la cita come una delle isole del Dodecaneso ma il link è disattivato e se ci clicchi su, appare un perentorio “pagina inesistente”. Situata a 20 miglia a Sud Est di Astipalea, Sirna sembrerebbe essere l’isola che non c’è. Troppo piccola per aver diritto ad una carta a sé, troppo distante per essere inclusa nella carta di Astipalea. L’isola più vicina ha una rotta cui il ritorno con prua a Nord Ovest, un faccia a faccia col vento dominante, scoraggia decisamente dalla visita. Per tutti questi motivi decidiamo che vale la pena di andarci. Li vale tutti, quei gradi persi verso Sud, Sirna. Per noi che abbiamo in mente di arrivare a Chios, decidere di scendere queste altre 20 miglia con rotta sud est non è una decisione leggera. Soprattutto col meltemi che ci dice molto chiaramente che quest’anno farà i doppi turni, occupazione del suolo pubblico coatta e non ci pensa nemmeno ad andare in letargo a fine mese. 
Ma Sirna non si può saltare: remota, isolata, disabitata, splendida. Un grande fiordo a sud dell’isola offre 3 ancoraggi ben protetti. Sono piccole insenature, strette e dall’acqua profonda. Metti un paio di cime a terra e sei nel regno del silenzio assoluto, fatto salvo il meltemi, ovviamente. In ognuna di queste cale c’è posto per una barca soltanto che, quando è saldamente ancorata e assicurata a poppa, occupa come un tassello mancante del puzzle, il centro della baietta. Un ancoraggio necessariamente solitario. A meno che il secondo giorno in cui sei lì non arrivi lo strano equipaggio di Boheme che decide di snobbare gli altri due ancoraggi e di passare la giornata a tentare manovre per affiancarsi il più possibile a te. Un anziano signore greco, con evidente perizia marinara carente anche se sopra la sufficienza, ha addirittura puntato lo stesso scoglio nostro per la cima di poppa. A bordo con lui una donna che sembra un ragazzo che sembra un pesce. Nell’evoluzione della specie non è ben chiaro dove collocarla. Pur di affiancarsi a noi, lo strano essere viene catapultato in mare una dozzina di volte con cima di poppa e nuota con una velocità da Olimpiade per fissare la cima sullo scoglio, poi tornare a bordo, poi tornare in acqua per toglierla e ritentare l’ormeggio. Li guardiamo orripilati, tentiamo di suggerire loro un altro ancoraggio nel fiordo ma alla fine desistiamo. Si vede che soffrono la solitudine, non è gente che ha fatto 20 miglia con forza 7 per restare isolata. A parte chiederci di mettere i parabordi, per sicurezza, non comunicano un granché, però. Lei non sembra dotata dell’uso della parola ma la sua velocità natatoria e la sua resistenza in acqua fredda incute un timore reverenziale. Questa il meltemi lo prende a cazzotti, mi sa.
Prima dell’arrivo dei nostri nuovi fedeli amici, abbiamo modo di apprezzare questo angolo di mondo di cui nessuno parla. Sirna è roccia brulla e macchia bassa. L’acqua è di un blu che hai dimenticato, limpida come solo acque solcate di rado possono essere. Guardando con la maschera, scopri che il fondo è disseminato di residui bellici, bombe e proiettili di forma cilindrica che ti auguri siano tutti esplosi. Adesso, cosa diavolo ci sarà mai stato da bombardare qui a Sirna? Visto che i testi disponibili al momento non aiutano, posso solo immaginare che venisse usata per esercitazioni militari oppure che qualche flotta italiana o turca fosse riparata e nascosta qui nei momenti cruciali del conflitto, di quale conflitto si trattasse non so. Sulla punta della baia, adagiato sul fondale, il relitto quasi integro di una nave di 30 o 40 metri. La curiosità sul suo naufragio è destinata a restare irrisolta, almeno per ora. A Sirna, va da sé, niente internet, niente campo telefonico. Il mondo deve necessariamente fare a meno di te. Si consiglia di ripartire, ovviamente, prima di potersi rendere conto che la cosa è facilmente fattibile.

giovedì 9 agosto 2012

Astipalea. “Kastro mesa italiani dormire, mangiare, pum pum pum”

“Italiani?.... Ohhhh italiani! Ella, ella!” Una signora molto anziana vestita di nero e seduta sugli scalini all’ombra di una casa della Chora di Astipalea, richiama la nostra attenzione e, al cenno di assenso sul nostro essere italiani, ci chiama a sé, ci prende le mani e inizia un lungo discorso fatto di gesti, di sguardi e di parole nei tre vocabolari greco, italiano e inglese. Non so se si commuove così ogni volta che vede un italiano, cosa che non deve essere troppo frequente però neanche così rara quaggiù, ma dall’enfasi con cui parla sembra che siamo i primi italiani che incontra dal dopoguerra.
C’è del bello nel non parlare la stessa lingua, a volte. Ed è tutto nella passione con cui il prossimo si impegna a spiegarti quello che sente. La signora, che per inciso non intende venderci nulla, ha le lacrime agli occhi, mi stringe la mano (Giovanni si è rapidamente ripreso la sua), mi accarezza il viso e cerca di raccontarci la sua storia, o meglio, la Storia della prima metà del secolo scorso, inanellando una trentina di vocaboli in tutto. “Kastro” indicando il castello “Italiani mesa dormire,  mangiare… Oh italiani!!! Latte, formaggio, uva, ricotta. Mesa mangiare, mesa dormire” facendo il gesto di cullare un neonato al seno. Poi, rabbuiandosi “Germans, vrooom” mimando con la mano aerei che sorvolano  in alto. “Italiani Pum pum pum” sparando con due dita a pistola contro il cielo e con un sorriso da “arrivano i nostri”. Alla fine, assume il tono dell’epilogo del saggio e dice “Anglais arrivano… e… Perimene questa è Ellada”
Praticamente, un bignami di storia moderna, la nostra signora. Non so se, dal mero resoconto scritto, sia a voi comprensibile quello che dal vivo era assolutamente cristallino e inequivocabile. 
In sintesi: i nostri soldati erano arrivati dopo aver cacciato i turchi, si erano piazzati dentro al Castello e non facevano altro che mangiare e dormire. Apprezzavano particolarmente i formaggi, l’uva e i suoi derivati , il latte di capra. Il gesto di cullare il neonato credo fosse riferito ai piccoli italiani illegittimi che nacquero in quel periodo, forse qualche figlio stesso della signora. Quando poi sono arrivati i tedeschi, nella seconda guerra mondiale, gli italiani (forse alla fine, quando avevano capito...) hanno cominciato a usare la contraerea per difendere l’isola, gli astipaleani e soprattutto se stessi. Poi sono arrivati gli inglesi, hanno liberato tutti e hanno detto “Mo’ basta occupazione, questa è la Grecia liberata”. 
I greci sono un popolo abituato alle occupazioni cui hanno reagito con ritrosia e diffidenza solo all’inizio per poi accettare piacevolmente gli intrusi e integrarli nella loro vita quotidiana. Un esempio di quanto sto dicendo, nel bel film di Salvatores “Mediterraneo”, ambientato nella remota Kastellorizo. L’affetto con cui la signora ricorda gli italiani non è quindi affatto strano da queste parti.
Insomma, ci vogliono bene qui ad Astipalea, dovevano essere assai meglio dei Turchi questi italiani, almeno nei ricordi della signora.
Ma anche nei ricordi di Elias, o meglio nei ricordi tramandati al figlio dal padre di Elias che ha lavorato per i Carabinieri italiani per 15 anni quando la Stazione CC era a fianco dell’autorità portuale. Elias è l’uomo dell’acqua di Astipalea, il water for boat che si legge nei cartelli scritti a mano sulle banchine greche. Ovvero un signore che ha le chiavi del lucchetto del tubo dell’acqua sul molo, tu chiami, lui prende il motorino, viene al porto, ti apre il lucchetto ti aiuta a svolgere il tubo e ti fa fare rifornimento d’acqua per 5 euro. Non hanno il conta litri, si paga 5 euro e basta che il tuo serbatoio sia di 400 litri come il nostro o di 2.000 come quelli dei caicchi. Elias ci incontra al tramonto in motorino che andiamo a fare le foto ad Astipalea di notte e ci raggiunge in barca più tardi per farci vedere sul monitor della macchina fotografica quale sia la sua casa. 
Ci dice che l’Italia è bellissima, lui non ci è mai stato ma deve essersela immaginata così. Ci racconta che per anni ha fatto il meccanico dei motori ma che ora basta, ora ha un figlio, ora fa l’uomo dell’acqua. Evidentemente procreare ha più a che vedere con l’acqua che con i motori e la cosa, se volete, ha un senso. Elias ci parla e con gli occhi viaggia con noi, ci dice che anche Sirna, isola disabitata a 20 miglia a sud è splendida ma anche lì non c’è mai stato. 
E poi c’è il bambino dei fichi, che non si sa come si chiama e non si ricorda degli italiani perché per lui, italiano, greco, tedesco, belga, non importa. Tu sei semplicemente uno di quelli delle barche che arrivano al porto, quelli che quando la mamma li vede da casa sulla collina, lo chiama veloce,  gli mette un paio di sacchetti di fichi appena raccolti e lo manda in banchina per venderli a 4 euro. Ogni sacchetto è di circa un chilo e mezzo. Il bambino ha un’aria un po’ triste, forse è solo la forma degli occhi, forse un innato istinto di marketing. Quando gli compri i fichi e gli dici che non importa se non ha il resto, accenna un lampo di piccolo sorriso ma poi indossa subito di nuovo la faccia triste. 
E siccome hai comprato, torna dopo 10 minuti e ti chiede se ne vuoi altri, e poi ancora 10 minuti dopo. Vorrei smentire la teoria sull’indigestione dei fichi che provoca il mal di pancia. A questo punto, dopo il plurimo acquisto, la considero un’ingiusta calunnia. Forse è per questo che il bambino aveva la faccia triste.
Quel che è certo è che al bambino gli avrei finanziato l’intera piantagione, dopo aver visto la sua faccia triste trasformarsi in espressione di dignitosa serietà nel rifiutare lo sconto chiesto da un orrido armatore turco, esempio di nouvelle richesse, da imbarazzare persino i nostrani Briatori. Il turco ha chiesto di assaggiare un fico, gli ha fatto cenno per dire che valevano meno di quanto richiesto e gli ha offerto una cifra inferiore. Il bambino si è ripreso il suo sacchetto, ha detto un educatissimo "No" e gli ha girato le spalle. E quel fico di assaggio glielo ha regalato. 
Vorrei insegnare al bambino a dire la parola “Pezzente” in tutte le lingue del mondo. Ma forse la sua dignitosa risposta valeva di più. Astipalea è luogo di incontri e facciamo amicizia con Alberto e Paola che ci invitano a bordo del loro Franchini 53 per un aperitivo e scambio di informazioni da naviganti in Egeo. Con loro a bordo due amici e l’espertissimo Hans, marinaio austriaco naturalizzato in Turchia. Raccontiamo loro Creta, dove portano a svernare la bellissima “Atrevida”. Gli piacerà, Creta non può non piacere.
Ad Astipalea torniamo dopo 27 anni. L’isola è sostanzialmente la stessa. Nel porticciolo di Skala c’è qualche costruzione nuova ma neanche poi tante. La Chora è decisamente più animata ma l’indole del posto è rimasta quella. Gli autobus sono di nuova generazione e hanno una frequenza maggiore di allora. Per il resto è assolutamente la stessa isola. Con sorpresa, seduti al tavolino di una taverna sulla spiaggia di Ormos Marmari, sentiamo la stessa canzone greca che suonavano sugli autobus quasi 30 anni fa. Deve essere un classico, oppure la canzone di Astipalea. Un po’ un loro “O sole mio”, la coincidenza è commovente.
Astipalea, dimenticata dagli dei in un buco di solo mare, a 25 miglia dalle sorelle egee, dodecanesica sulla carta ma cicladica nel carattere, è un’isola a forma di farfalla, con un istmo sottile che divide la costa nord da quella meridionale, la parte Ovest montuosa da quella Est più collinare. È frastagliata e costellata di isolette satellite. Splendido l’ancoraggio nella cala Ovest di Kounoupi, Landa Bay, dove restiamo a dormire abbastanza tranquilli nonostante un forza 6-7 che imperversa tutta la notte. Bellissima anche la baia di Kaminakia con la taverna in riva al mare. E le acque cristalline di Ormos Steno e quelle blu profondo di Ag. Fokas con le scogliere a picco nel mare. Il resto di Astipalea lo vediamo in motorino, con la strada che a ogni curva ti fa cambiare versante, su strade sterrate e piene di sassi che chissà quanto turismo ci vuole prima che le riescano ad asfaltare. È brulla, rocciosa, sarebbe silenziosa se non fosse per la colonna sonora potente del vento. Astipalea è bella e dolce in tutto, fin dal nome, fin dalla forma, sicuramente per la sua gente.

sabato 4 agosto 2012

Ritorno ad Amorgòs. Il sacro del monastero e quel profano del vento.

“Never sail south of Amorgòs. Never.” Il saggio Manolis, prezioso meccanico del Pireo, aveva sentenziato. Premesso che, dopo la dimostrazione di professionalità mai vista prima sul campo, io da Manolis, oltre che a farmi operare di colecisti, mi sarei pure fatta dire quale abito indossare a una Prima alla Scala, ovvio che su temi come questi non lo si potesse che prendere sul serio. E giustamente lo si fa. Amorgòs, forse la mia preferita delle Cicladi, ti accoglie sempre con grande ritrosia. 
Sia l’altr’anno giungendo da Est a settembre, sia ora arrivando da Kato Koufonisi, l’approccio a Katapola è caratterizzato da vento medio ma mare molto formato e molto scomodo. Quando arrivi però, ritrovi un posto dove è facile desiderare di  fermarsi a vivere. Dal porto con il bus saliamo alla Chora, che si erge nel centro dell’isola a 300 metri sul livello del mare. 
Bianca, splendida, silenziosa. Le case imbiancate a calce che contrastano con gli infissi di colori brillanti, viuzze strette dove si adattano e ne assumono la forma i dehors delle taverne. Immancabile, sui tavolini, la scacchiera di backgammon e il bicchiere di ouzo. Il vento sale rapido sulla montagna e diventa freddo. Ci affacciamo sul lato sud a sbirciare il monastero e i mulini a vento. Siamo a picco sul mare, passeggiamo in un piccolo cimitero di anime che hanno sicuramente trovato un posto in Paradiso, qualunque peccato abbiano commesso in vita. Qui, dovresti ancorare a terra per non essere strappato via dalle raffiche e portato in un batter d’occhio a Santorini.
Ma, fino a questo punto è stato un ritorno, un omaggio a luoghi già conosciuti e amati. Il giorno dopo, salpiamo e giriamo l’isola andando verso Ovest. D’obbligo una sosta a Gramvousa, l’ancoraggio a nord-ovest protetto dall’omonima isola che però non è assolutamente all’altezza dell’altra Gramvousa, quella di Creta. Visto che il vento non è troppo cattivo, decidiamo di proseguire e di percorrere il lato sud di Amorgòs, quello del “never sail there” di Manolis. Vele ben strette, scorriamo la costa di ripide montagne che scendono a picco nel mare.
Splendido. Raffiche violente si abbattono sull’acqua, il rumore del vento è incessante e particolarmente sonoro. Per quanto precario e inquietante, impossibile non decidere di fermarsi per la notte all’ancora proprio sotto il Monastero di Hozoviotissa, una incredibile opera verticale imbiancata a calce che sta letteralmente aggrappata alla montagna di roccia rossa. Si narra che un giorno, nel IX secolo, venne ritrovata una barchetta tra gli scogli con a bordo una icona della Madonna. Questo segno venne interpretato come una benedizione per i pescatori che trovarono in questa icona la loro protettrice da venerare. Si stimò che l’opera provenisse da un piccolo villaggio in Palestina chiamato Hozovo da cui l’icona divenne Vergine Maria Hozoviotissa. Il Monastero venne eretto per onorarla e renderla imperitura. Vista dall’acqua Hozoviotissa è impressionante. Immagino il monaco che abbiamo conosciuto l’anno scorso ricevere gli ospiti. Il monaco indossa abiti borghesi, scarpe da tennis, ti accompagna su per 8 piani di anguste e silenziose stanze, ricche di affreschi e addobbi sacri e alla fine del giro ti offre acqua fresca, qualche loukoumades e un bicchierino di raki.
Sono sicura che veglia sul nostro ancoraggio proprio sotto il monastero. Siamo sicuramente stati immortalati da decine di macchine fotografiche dei visitatori. La vista dal Monastero è splendida e la nostra barca mette nelle inquadrature qualcosa di umano e dà un significato alle proporzioni. È un ancoraggio che sa di provvisorio il nostro ma riusciamo a fermarci per la notte. Strapazzati da raffiche fortissime alternate a calma di vento su un mare che è una tavola turchese, trasparente e limpidissimo. Ne fa un po’ le spese Bomby, saldamente legato a poppa, che fa il ballo di San Vito (o forse in questo caso di S. Dimitri…). Una raffica gli ruba un remo che resterà immolato nell’Egeo e forse diventerà San Remo (no, non è vero, non posso aver detto sta cavolata...). Un’altra raffica lo capovolge, nulla di eccezionale ma non era ancora mai capitato che si capottasse con il fuoribordo montato. In 10 secondi Giovanni riesce a recuperarlo, pulirlo, oliarlo e scoprire che non c’è stato alcun danno. Solo i soliti dispetti del Meltemi che qui, al Monastero, evidentemente si sente ispirato da una sfidante competizione divina. 
Sorge la luna piena e rende ancora più imponente la bianca facciata. Una lucina lieve, forse di candela, una sola, dietro una finestra. Il monaco forse sta pregando per noi. Più probabilmente si sta bevendo in santa pace un bicchierino del suo Raki. Spero solo non stia guardando le Olimpiadi in televisione, questo sì che rovinerebbe la poesia.
Vi sembrerà un’esagerazione, ma lasciatemelo dire: bisogna passare una notte in rada sotto il monastero di Hozoviotissa prima di morire.

mercoledì 1 agosto 2012

Kato Koufonisi. C'è posta per te.

A parte una taverna per i gitanti giornalieri, l’unica costruzione di Kato Koufonisi è la panaghia (vale a dire una chiesetta) sul molo di Dethis bay. Ma alla faccia di chi dice che la Grecia è oltre il collasso e che nulla funziona, persino questa singola anima che sospetto essere l’unico abitante stanziale dell’isola, ha evidentemente il sacrosanto diritto di ricevere il suo pacco celere senza necessariamente doverselo andare a prendere da qualche parte. La curiosità è notevole. Cosa avrà ordinato il pope solitario? Abiti talari? Kit usa e getta per l’estrema unzione delle capre? 
Ma no, mi piace pensare che il nostro religioso abbia ordinato bulbi di tulipani dall’Olanda desiderando lanciarsi nell’impresa impossibile di far diventare fiorita questa terra brulla e violentata dal vento. Ma la domanda più importante è: come avrà fatto il signore della SDA (o DHL o che so io) a lasciare quel pacco senza che il destinatario, chiaramente irreperibile al momento in cui è arrivato, gli abbia debitamente firmato la bolla di consegna? Son cose per noi difficilmente immaginabili… 
D’altra parte, immaginate il povero Pope che magari nel frattempo era andato a procacciarsi il cibo con le pinne, il fucile e gli occhiali, tornare e trovare appiccicato sul moletto il post it arancione della mancata consegna. Roba da fargli scatenare l’inferno… No, meglio così, meglio lasciare il pacco incustodito sul molo. Tanto, a parte noi, nessuno avrebbe potuto impadronirsene. E io di abiti talari o di bulbi di tulipani non saprei davvero che farmene. Oddio, magari di kit per l’estrema unzione delle capre, sì, ma non vale la pena irritare il pio uomo.
Nell’antichità il mare compreso tra Keros, e le due Koufonisi (Kato e Pano) era noto con il nome di “Koufous Limin” ovvero “Porto Sordo”. Immagino subito che la responsabilità sia dell’amico Meltemi che strilla come un pazzo tra queste isole e che rischia di farti diventare sordo. Invece pare sia per il motivo contrario: ovvero qui, sottovento tutto dovrebbe essere quieto, talmente quieto da non udire alcun suono. Quindi, qui le cose sono due: o gli storici ci raccontano un sacco di fregnacce o il Meltemi invecchiando si è decisamente incarognito. Propendo per la seconda ipotesi.
Kato Koufonisi è un ritorno per noi. L’anno scorso ci siamo arrivati nella seconda metà di settembre. Qui abbiamo rivisto le nuvole dopo parecchi mesi e abbiamo apprezzato i colori della terra, gialla ocra, quasi oro che, con la luce bassa e il cielo terso delle giornate settembrine, erano sicuramente al loro meglio. Oggi notiamo i colori dell’acqua, grazie al sole che ha un’escursione più alta e al cielo limpido che si riflette.
Per il resto, Kato Koufonisi è identica: scenario splendido, pochissime barche, Meltemi in una delle sue giornate da "oggi mi arrabbio davvero" che ci obbliga a una sosta in rada di 48 ore. 
C’è di peggio nella vita, c'è anche chi il 1 agosto è in una metropolitana fumante diretto in un ufficio - stra-condizionato ma sempre ufficio - e chiedendosi se riuscirà a far uscire la campagna pubblicitaria in tempo per prendere l'aereo per i suoi meritatissimi 15 giorni di vacanza. Lo so, devo dirlo ogni tanto, se no sembra che ho dimenticato come si vive fuori dall'acqua. Glielo dico anche al Meltemi, a volte. Gli dico "Non me la prendo, guarda. Strilla quanto ti pare, sempre meglio imprigionati qui, che in mezzo al traffico di Roma".
Lui non capisce se scherzo o faccio sul serio e di solito, nel dubbio, si mette a soffiare di più. Ma è vero:  a Kato Koufonisi puoi sentirti imprigionato senza che questo sia un peso. Il bello di questo pezzo di mare è che è un punto privilegiato di avvistamento di isole, da Folegandros a Ios, da Dhenoussa ad Amorgos, da Naxos a Mikonos. E in mezzo, immancabili, creste bianche di onde basse e arrabbiate.